Matteo Fochessati
La sperimentale e innovativa opera di Lele Luzzati nel campo dello spettacolo teatrale ha rappresentato la pietra angolare e il paradigma espressivo di tutto il suo complesso e articolato mondo creativo. Tale attività ha trovato infatti coerenti declinazioni linguistiche in tutti gli altri settori della sua ricerca artistica: dall’illustrazione al cinema di animazione, dalla ceramica al design del tessuto, dall’arredo navale e di interni a quello urbano.
Unitamente alla sua visione globale del fare arte, questa molteplicità espressiva ha così dato vita a inediti intrecci tra ricorrenti motivi stilistici e iconografici, in un continuo e suggestivo cambio di scala dimensionale tra opere che, pur in ambiti differenti, presentavano analoghi soggetti e comuni approcci operativi.
Grazie a un’intensa sensibilità empatica e a un linguaggio universale, la sua ricerca artistica si caratterizza inoltre per una fantastica rappresentazione del mondo. Ogni opera scaturisce sempre da una libera fantasia creativa e dalla volontà di trasformare con semplici mezzi la realtà quotidiana, proiettandola verso un magico universo incantato.
Così rispondeva lo stesso Luzzati alla domanda su cosa fosse per lui la fantasia: «È pensare che una seggiola non sia una cosa su cui sedersi ma, se le metti un cappello, può diventare un uomo».
E appunto di semplici strumenti e di materiali poveri si è sempre servito: come nel caso degli scampoli di tessuto della MITA utilizzati nel 1949 per i costumi dell’allestimento scenico de Le allegre comari di Windsor di Alessandro Fersen o dei ritagli di stoffa recuperati nelle sartorie teatrali e adoperati, insieme alla madre Fernanda Vita Finzi, per creare arazzi dallo squillante patchwork cromatico. Questa libertà creativa e questa attitudine a declinare gli stessi escamotages linguistici attraverso differenti modalità espressive nascevano da una perizia tecnica che si potrebbe definire di matrice artigianale. Luzzati, infatti, si è sempre definito un artigiano.
E se tale affermazione rappresentava un’ironica maniera di ridimensionare, con il suo tipico understatement, le lodi della critica e dei numerosi fan, essa in realtà conteneva un’autentica dichiarazione di intenti, riferendosi alla propria appartenenza a un filone di ricerca che, da William Morris al Bauhaus, ha improntato tutta la tradizione del design del Novecento.
Tale propensione a identificare il proprio lavoro artistico con le modalità operative delle arti applicate si connetteva anche a una connaturata predisposizione a lavorare insieme agli altri: al suo desiderio di collaborare e interagire con committenti, registi, attori, architetti, editori, scrittori e artigiani.
La condizione di interdipendenza nel controllo delle fasi di lavoro e di condivisione del processo creativo non hanno mai rappresentato un limite alla sua inventiva. Luzzati, d’altronde, riteneva che «libertà è avere un limite».
Per lui i limiti rappresentavano una sfida, la motivazione da cui scaturisce il piacere di giocare con i pennelli, la cartapesta, gli scampoli di tessuti, la terra e di mischiare ingredienti diversi e tecniche differenti per dare vita a un mondo fiabesco, spesso rappresentato dal topos del bosco: ossia uno spazio magico in cui mettere in scena (La mia scena è un bosco era il titolo di un suo allestimento teatrale del 1990) gli intrecci narrativi di una sfrenata fantasia.
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