Renzo Piano
Con Lele ci siamo conosciuti a lungo, abbiamo condiviso tante cose. Io non sono un critico, la mia è una testimonianza di vita, sono ricordi legati a un affetto. Con Lele c’era - come dire - una sintonia: sono sempre stato ammirato dalla sua innocenza. Lele aveva infatti una sorta di innocenza da bambino, so che è banale dirlo, però lui sembrava quasi sorpreso di quello che riusciva a fare, proprio come i bambini alle prese con il loro primo disegno o la prima frase scritta. Per cui davanti a un suo lavoro, un disegno, un modello, ne restava sorpreso lui per primo. Nel mio piccolo, ancora adesso, anch’io davanti a qualcosa che mi riesce, la guardo e dico: “toh!” E Lele era come se facesse così sempre. Come se per lui fosse sempre la prima volta. Io questo l’ho sempre notato, anche negli anni: ad esempio, quando parlava di Genova e poi si metteva a disegnarla con una pennellata, gli veniva bene e se ne meravigliava.
Luzzati in realtà è un uomo che ha attraversato i confini, ha toccato tutto, il teatro, la musica, la pittura, insomma era uno che sconfinava veramente. Partendo da questa sua gestualità immediata poi ha messo il naso dappertutto. In questi suoi sconfinamenti era riconosciuto da tutti, Lele faceva le cose “universalmente”. Luzzati infatti non era solo Genova e la Tosse, era il Teatro nel mondo.
Ho un ricordo di Lele scolpito nella memoria. Nel 1993 a Parigi fece una bellissima mostra al Centre Pompidou. Un giorno venne a pranzo a casa mia e chiese a mia moglie Milly di dargli un metro e un sigaro toscano per farmi un ritratto. La testa la disegnò lui, e con i pezzi del metro fece il corpo. In lui c’è molta ironia, c’è umorismo. È anche da questo che si riconoscono subito le opere di Lele Luzzati.
Entrambi avete avuto un rapporto speciale con la città di Genova
Genova è una città che ti lascia delle tracce. Queste sovrapposizioni, questi segni, queste mura che Lele ha sempre disegnato... Genova è una casbah, una nobile, straordinaria casbah.
Nelle rappresentazioni di Lele la città, anche se è immaginaria, è sempre Genova. O potrebbe esserla. Adesso non voglio cadere nella trappola di un romanticismo fuori luogo, ma anche nel mio immaginario, benché viva altrove, c’è sempre Genova, l’intensità della città, l’acqua, la luce. Fa parte del nostro bagaglio immaginario.
Uno che è nato qui, cresciuto in riva al mare, in questa città straordinaria che è Genova, la porta con sé, non c’è niente da fare. Poi magari va in giro per il mondo a fare dei vascelli come faccio io.
Io faccio vascelli che volano pesanti, Lele li faceva leggeri. Anche per lui le navi non sono solo in acqua ma anche per aria, volano così come le persone.
La sua caratteristica era questo togliere il peso alle cose, togliergli forza di gravità. Ecco: sfidare la forza di gravità. Per me è molto più difficile, però adesso non voglio fare paragoni. In realtà lui sarebbe stato un grande poeta, io sono un costruttore.
C’è qualcosa che vi unisce, c’è uno spirito che pur con mestieri diversi vi porta a dialogare. Quali sono i punti di incontro fra le vostre arti?
Non c’è arte se non c’è dietro una storia, se non c’è dietro un solido terreno su cui costruire.
Che tu faccia l’architetto, che tu faccia l’artista come lui, che tu faccia il musicista o il cineasta, se dietro non c’è una storia, se non c’è una sostanza, se non c’è una passione, quello che fai manca di concretezza, di verità.
Questa è una cosa che Lele aveva dentro. La differenza tra l’accademia e l’arte è che l’accademia crea delle forme, e dietro non c’è niente, l’arte invece ha sempre qualcosa dietro. E in Luzzati c’è sempre qualcosa: storia, tragedie, speranze. Come anche il teatro. Se il teatro non ha dietro qualcosa di profondo che tocca l’animo umano, che aggancia l’immaginario della gente, cos’è? Puro esercizio accademico, formale. Puoi fare quello che vuoi, ma se manca questo sei un poverello. Lele di fatto è lontanissimo dall’accademia, è l’opposto. Lui è una persona che parte dalla realtà delle cose.
Questa è una cosa di cui non ho mai parlato con Lele, figurati! Con Lele parlavi di colori, di materia, di supporti... Soprattutto, con lui non parlavi! Non c’era molto da dire a parole, si stava insieme, si respirava la stessa aria.
È un po’ difficile raccontarlo. Questa cosa l’ho provata con lui e con altri amici che non ci sono più: ad esempio Italo Calvino che abitava qui a Parigi e veniva nel cantiere del Beaubourg. Italo Calvino in qualche maniera era una specie di Lele Luzzati della scrittura.
Le sue città invisibili sono qualcosa di simile, sono il rifiuto dell’accademia a favore dell’immaginario. Anche quelle sono città immaginarie che però contengono Genova, così come nel Barone rampante c’erano gli alberi della riviera ligure. Sto pensando anche a Fabrizio de André, con cui siamo stati molto amici, che poi alla fine è andato ad abitare a Milano. Genova, la Liguria, il mare: nella musica di Fabrizio - mi viene in mente Crêuza de mä - c’erano i profumi, le voci del mare, gli odori, le luci, in qualche maniera una terra che ha sempre assecondato l’immaginario.
Montale diceva: non c’è terra come la Liguria che lasci delle tracce profonde sotto la tua pelle. Anche Luciano Berio che, pur essendo ligure di Oneglia - lui non voleva essere definito di Imperia, ma di Oneglia - ha vissuto altrove, anche qui a Parigi dove poi siamo diventati amici, aveva la stessa forma di innocenza quasi un po’ infantile, ma non mi piace usare questo temine che sembra troppo romantico. Rifiutare l’accademia significa in sintesi ritornare alla propria terra. Quindi che tu sia cineasta, architetto - poverino! - artista o musicista, è lì che ti abbeveri: nella luce, nei suoni, nel ricorso alla tua terra. Come faceva Lele, che rifiutava l’accademia senza nemmeno sapere cosa fosse.
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